È un Paese sempre più strano il nostro. Se si evitano le tifoserie secondo cui ogni mese siamo o vicini alla catastrofe o alle soglie del Paradiso, c’è davvero di che provare a pensare sui fondamentali dell’Italia.
Gli ultimi dati di maggio resi pubblici dall’Inps la scorsa settimana descrivono un andamento positivo dell’occupazione, trainato in particolare da un significativo e costante andamento delle trasformazioni a tempo indeterminato di rapporti a termine e in somministrazione, oltreché da una positiva crescita delle trasformazioni a tempo indeterminato dell’apprendistato. Il che fa il paio con un tasso di occupazione mai così alto (59%, anche se sempre in coda ai Paesi dell’Ue) fornito dall’Istat poche settimane fa, al cui interno l’elemento più significativo è il superamento del tasso di occupazione delle donne del “tappo” del 47% cui sembrava non potersi disincagliare.
Ma questi elementi senza dubbio positivi si accompagnano, pubblicati nella stessa giornata, con i dati sul ricorso alla cassa integrazione, specie nelle forme della Cassa straordinaria (addirittura un raddoppio delle ore utilizzate) e in deroga (strumento che si è dovuto “rivitalizzare” in fretta perché la riforma del 2015 degli ammortizzatori ha prodotto il paradosso di una riduzione del loro tempo di utilizzo possibile a fronte del protrarsi della crisi!), che indicano l’aggravarsi profondo di condizioni di crisi e di difficoltà di settori molto ampi del nostro apparato produttivo e di servizi. Tra parentesi, ricordo che ai fini dei dati sull’occupazione, anche chi è in Cig conta come occupato…
Ma non c’è solo questo: se si esaminano i dati sull’occupazione nella loro dinamica si scopre che in tutti i mesi del 2019 i valori assoluti, pur positivi, sono sempre inferiori ai corrispondenti dell’anno precedente, il che mostra un rallentamento nella dinamica dell’occupazione che, accoppiato alla crescita del ricorso alla Cig non denota una condizione positiva del nostro sistema economico. A coronamento del tutto, i dati sull’andamento del PIL e della produzione industriale sono stagnanti o negativi da diversi mesi.
Cosa si può dedurre da questi elementi, soprattutto rispetto all’efficacia delle misure (Decreto dignità in primis) di questo Governo?
Una possibile conclusione è che le misure hanno certamente incoraggiato le trasformazioni di rapporti di lavoro precari verso soluzioni più stabili, ma non hanno incentivato un’espansione della base produttiva; in altre parole hanno forse incoraggiato le imprese a fare prima ciò che avrebbero fatto in ogni caso (le trasformazioni), ma non hanno eroso in misura significativa il ricorso a forme di lavoro precarie (le variazioni nette dei rapporti a termine, in somministrazione ed intermittenti sono tutte positive, il che significa che al netto delle trasformazioni o delle interruzioni di rapporti il numero di rapporti precari cresce). Quindi “la Waterloo della precarietà” non si è realizzata.
Non solo. La crescita delle teste che lavorano nonostante la stasi dell’economia è spiegabile solo con un aumento molto significativo dei part-time involontari (anche a tempo indeterminato) e con rapporti temporanei molto brevi, ossia con rapporti intrinsecamente precari (del resto la Fondazione Di Vittorio ha segnalato per prima l’enorme “vuoto di ore lavorate” che permane pur avendo il numero di occupati totali raggiunto e superato il livello pre-crisi). E una crescita di persone al lavoro - sia pure per meno ore - in un’economia che non cresce produce una caduta della produttività, dimostrata dal calo verticale e costante degli investimenti.
Dunque, la struttura economica di questo paese si risulta complessivamente più fragile nonostante l’aumento complessivo delle persone al lavoro.
In questo quadro non ho fatto ancora cenno alle differenze territoriali, che si allargano tra territori dove le imprese competono anche - e soprattutto - a livello internazionale e territori sempre più desertificati sia di capacità produttiva che di giovani che emigrano verso Nord o all’estero. Né ho fatto cenno alla composizione professionale dell’occupazione, segnata come molte ricerche hanno dimostrato dal doppio fenomeno di “overeducation” (si lavoro in professioni/mansioni per le quali le competenze professionali acquisite sono inutilmente elevate) e sfalsamento (non si trovano competenze richieste dal mercato). A tale riguardo un ragionamento su cosa indicano i dati dei test Invalsi recentemente pubblicati sarebbe necessario da parte di persone più competenti di me.
Ci sarebbe bisogno di scelte che facessero i conti con queste condizioni strutturali, ma innanzitutto che ne facessero oggetto di una discussione pubblica e trasparente, specie in previsione della legge di bilancio. Ci sarebbe bisogno, appunto.